“Il dito contro”: Ancelotti e il Napoli, confusi e infelici

Con la sconfitta rimediata sabato all’Olimpico contro una Roma gagliarda e baciata dalla sorte d’aver avuto in dono un giovane campione come Zaniolo, per il Napoli si consuma l’ennesimo brutto atto di questa stagione che sta assumendo sempre più i toni di un vero e proprio dramma, sportivo e sociale.

La squadra di Ancelotti non sa più vincere e lentamente in classifica scivola sempre più giù – tuttavia è giusto precisare che un campionato a tre punti ci insegna a non dare niente per perso, bastano una manciata di partite per recuperare terreno – ma quello che preoccupa sul serio è l’incapacità di ritrovarsi da parte di tutto il Napoli dai vertici della dirigenza, passando ai tifosi per finire ai calciatori.

Lontanissimi sono i tempi del riconoscimento totale e totalizzante tra piazza e squadra ormai sempre più distanti –  dall’amaro addio di Sarri passando per la cessione illustre di Marek Hamsik – mentre oggi ad essere vicinissime sono le critiche, appena sussurrate da alcuni e urlate a voce viva da altri all’indirizzo della gestione di Carlo Ancelotti.

Sarebbe inutile e anche controproducente andare a stilare una lista di tutto ciò che non funziona in questa squadra confusa e senza logica, poiché ad un certo punto quando svanisce il cuore e l’orgoglio di un intero gruppo – dimostrato in passato fieramente ad ogni angolo d’Europa – le chiacchiere stanno a zero, non resta che prendere atto della rottura del famoso “giocattolo”.

Allora che fare?

Piangere su quello che è stato?

Specchiarsi come dei novelli Narcisi in sprazzi di bel gioco che non sono altro che reminiscenze e ricordi?

Oggi l’amarezza è tanta e questa società non ha alle spalle la storia di una nobile decaduta, come ad esempio il Milan, una squadra che può ancora per qualche tempo concedersi il lusso di dire e dirsi: “io sì che sono stata tra le più belle”.

A Napoli e al Napoli questo non può accadere: la squadra e la città corrono freneticamente da sempre sugli stessi binari, due cuori col battito all’unisono e probabilmente l’errore vero è stato da parte dei piani alti permettere che si spezzasse questa catena fatta di sangue e sentimento.

La storia però non si fa con i “se” e con i “ma” -visto che i divorzi spesso avvengono per scelte comuni – quindi stare a contorcersi pensando ancora a chi è giunto al Palazzo dalla porta principale al Napoli e a Napoli non fa bene; ciò che serve però è riuscire ad essere oggettivi e guardare alla differenza di quella squadra con questi fantasmi di oggi allenati da un re che accampa scuse e che ha perso idee e corona.

Forse le idee – e specifichiamo che si tratta soltanto di speculazioni – non sono mai state realmente le sue, forse quel treno mai partito da Yuma se fosse arrivato avrebbe regalato nuovi stimoli ad un allenatore sì tra i più grandi di tutti ma che in questo momento appare schiacciato inesorabilmente dalle responsabilità per quello che vediamo in campo e per quello che ha dichiarato prima che cominciasse questa stagione 2019/2020: il secondo posto non gli bastava più, voleva lo scudetto, la squadra così costruita a suo dire era competitiva.

Competitivi senza rinnovare un reparto intero come il centrocampo, ancorato al solo Allan e schiavo delle velleità caratteriali di Fabiàn e Zielinski.

Competitivi senza il top player da trenta goal rincorso – almeno dalla stampa – per tutta l’estate, finché non s’è cucito addosso a forza ad Arek Milik questo vestito, spesso per lui fin troppo stretto.

Competitivi dopo l’addio di Albiol – quello che ha avuto almeno un terzo di responsabilità per la crescita di Koulibaly – per affiancargli Manolas, acquisto d’oro in una squadra e in coppia probabilmente – vista la ben poca complicità costruita fin ora tra i due – con un difensore che non risponda al nome di Kalidou.

Il secondo posto non gli bastava più e oggi infatti c’è l’Inter di Conte a giocarsi il campionato con la Juventus. Ad Ancelotti diamo ancora tempo e margine tanto è appena il secondo anno anche se tutte le aspettative al momento sono franate miseramente, ma l’esordio sulla panchina nerazzurra del mister leccese non dovrebbe essere una spia a dimostrazione del fatto che il palmares conta poco o nulla quando non hai il polso di squadra e ambiente?

Perché Ancelotti al Napoli è arrivato sul tappeto rosso steso dal patron De Laurentiis, una buona parte di Napoli – città storicamente ribelle e sanguigna – non ha mai visto di buon occhio quel “leader calmo” abituata com’era stata ai diti medi, ai gran proclami, al bel gioco e alla fantomatica rivoluzione. Fin tanto che anche l’altra parte di Napoli, quella che bramava il salto di qualità, l’assurgere a squadra manageriale s’è ritrovata a “pettinare le bambole” lasciate in cantina dal signor Ancelotti.

Tutti in qualche modo aspettavano che gli azzurri potessero dare prova d’esser finalmente maturi per giocare alla pari al tavolo delle grandi – c’è da riconoscere quanto fortuna e arbitraggi non abbiano di certo arriso nel corso delle partite ai partenopei – ma la verità è che questa squadra al di là di tutti gli alibi oggi non c’è: vive in un’apnea che rende lividi e scuri in volto anche quei calciatori abituati a tenere la testa alta e sorridere, leggasi il  “trio delle meraviglie” composto da Mertens, Callejon e Insigne.

I primi due dati già per partenti alla volta del sol Levante, mentre Insigne ha vissuto nel paradossale stato d’avere la fascia di capitano ma di essere delegittimato di tal ruolo davanti a tifosi e compagni; e tutto ciò avviene sotto la sapiente gestione di Re Carlo che dovrebbe ancora emanare un editto per spiegare un altro paio di questioni:

  • Lozano, perché volerlo a tutti i costi e non farlo giocare nel suo ruolo?
  • Perché il turnover senza sosta, la ragione di non avere ancora una formazione fissa a cui fare riferimento dov’è che sta?
  • Gholuam è destinato a diventare un caso come lo fu in passato il compagno di reparto Zuniga?

Tante domande, tanti i dubbi attorno a quella bellissima favola che fu il Napoli di appena un anno e mezzo fa e che oggi seguire fa male sia per i tifosi e sia a quell’idilliaca idea di calcio che era riuscito ad imporre su tutti i palcoscenici europei.

Il consueto dito contro di questa giornata di campionato punta dritto a Carlo Ancelotti, perché – e mai come in questa stagione in Italia lo stiamo imparando – la testa dell’allenatore è la prima a cadere quando le cose vanno male.

A Napoli stanno andando male oltre ogni pronostico, la squadra e la città che respirano da sempre allo stesso ritmo sono in apnea, ma Re Carlo è saldo al suo posto con le sue convinzioni e con la fiducia di una dirigenza che a detronizzare lui e tutta la discendenza non sembra pensarci neanche lontanamente.

Nonostante di aria fresca se ne abbia notevolmente bisogno, il Napoli tutto resta “borbonico” e fa la voce grossa contro ingiustizie più o meno gravi oggi che in ballo c’è la qualificazione in Europa.

Quindi la questione diventa inevitabilmente più annosa – e coinvolge sfere ben più importanti e di peso dello stesso Ancelotti – cosa deve succedere per decidere di cambiare?

Il dito contro è per Re Carlo, ma più in generale per la mediocrità alla quale hanno deciso di relegare, chissà fin quando, tutto quanto l’intero reame.

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