GINO PALUMBO RACCONTA NAPOLI ALL’EPOCA DEL PRIMO SCUDETTO
Quando si pensa ad un giornalista sportivo, soprattutto in Campania, il primo nome che viene in mente è Gino Palumbo. La carriera di Palumbo, nativo di Cava De’ Tirreni, parla da sola: nel 1949 diventa capo dei servizi sportivi de “Il Mattino”, nel 1953 fonda “Sport Sud”, nel 1962 viene chiamato a dirigere la redazione sportiva del Corriere della Sera, poi diventa direttore del Corriere d’Informazione ed infine nel 1976 viene chiamato a dirigere la Gazzetta dello Sport, ruolo che ricoprirà fino al 1983 per poi diventare il Direttore Editoriale della “rosea”. Viene designato anche per la direzione generale del Corriere della Sera, ma problemi di salute lo costringeranno a rifiutare il prestigiosissimo incarico. Nel corso di tutta la sua incredibile carriera, Palumbo ha avuto sempre a cuore le sorti del Napoli e di Napoli. Negli anni milanesi divenne celebre la contrapposizione tra la scuola giornalistica napoletana, capeggiata appunto da Palumbo, e quella del Nord guidata da Gianni Brera. Palumbo muore nel settembre del 1987, qualche giorno prima di Napoli-Real Madrid. Prima della partita i 100 mila del San Paolo tributano alla memoria di Palumbo un lungo applauso da brividi. Proprio pochi mesi prima di morire, Palumbo fa in tempo a godersi il tanto sognato primo scudetto del suo amato Napoli, che il leggendario giornalista commenta a modo suo, cercando di prendere a pretesto questa vittoria per dimostrare ai napoletani che si può reagire e si possono fare le cose per bene anche nella città partenopea.
"Seconda domenica di maggio dell’ottantasette. Napoli conquista per la prima volta lo scudetto, si colma un vuoto assurdo: la città ha sempre donato al calcio miliardi e passioni. Gli ingredienti per il successo esistono da decenni, ma prevaleva sempre un male antico: l’improvvisazione. Così le continue sconfitte si sono trasformate in angoscia, quasi fossero prove d’incapacità collettiva, segno d’inferiorità irreversibile. Lo scudetto è diventato realtà aggiungendo efficienza milanese all’estro, al cuore, al calore napoletani. E ora quegli attimi di baldoria dicono: anche noi siamo capaci. Prima del trionfo i tifosi si tenevano per mano, quasi senza parlare: tacevano la parola scudetto, ma ammiccavano dandosi di gomito. Una “sceneggiata del silenzio” di ispirazione teatrale: scaramanzia, orgoglio, consapevolezza di essere vicini a un traguardo storico. E il Nord si intenerisce, esprime ammirazione, simpatia. Poi, dopo sessant’anni, lo scudetto. Un successo arrivato prima sarebbe stato immeritato, casuale, sporadico. Ora è frutto di un lavoro caparbio. Il Napoli ha costruito un’intelaiatura solida: è il capolavoro del presidente Corrado Ferlaino, questo trionfo porta la sua firma. L’impegno dell’allenatore, le qualità dei giocatori non bastano in un ambiente difficile qual è quello napoletano. Se la società non avesse funzionato, tutto sarebbe crollato a metà torneo: come tante volte è accaduto in passato. L’atteggiamento responsabile e rigoroso di Ferlaino contagia anche i tifosi, fanno festa senza invadere il terreno del San Paolo. E’ dimostrato: una società seria genera pubblici maturi.Maradona. Lui incanta gli avversari con magiche invenzioni, la sua smania di vincere contagia la squadra. La città lo idolatra, lo trattano da figlio. Ma lui esige il monopolio sulla sua vita privata. Invece è personaggio pubblico: in campo e fuori. Deve fare attenzione: non può permettersi certe insofferenze.Questo scudetto, comunque, non cancella le miserie, né attenua le amarezze; i problemi rimangono: ma il calcio dimostra che è possibile risolverli, organizzandosi. E quell’entusiasmo può diventare spinta galvanizzante verso aspirazioni più elevate. Poi lo scudetto prova che il vittimismo è ingiustificato: smaschera i napoletani che non assumono iniziative, rifiutano le responsabilità e aspettano la manna dal cielo. Ovunque senti ripetere “Ma chi te lo fa fare? Qua non si può fare niente!” E incolpano gli altri, lo Stato. Quell’atteggiamento nasce dalla cultura araba e dalle dominazioni spagnole: è la più grave malattia di Napoli. Anche qui si può, invece, lavorare bene: certo serve più tenacia, forza di volontà. Napoli non aiuta chi si industria. E se qualcuno vuole andarsene, prima lo agevolano, poi lo colpevolizzano. Milano è competizione, emulazione. Di fronte a chi ha successo, pensano: se lavoro e mi impegno come lui, riuscirò anche io. Invece a Napoli dicono: ma come avrà fatto? Avrà rubato qua, avrà rubato là; forse la sorella è amica del presidente del Banco. Insomma, cercano mille pretesti. Intanto cercano di spingere giù quel poveretto che è “riuscito”, non per rubargli il posto, ma per ribadire che qui nulla si può fare. La carriera degli altri non fa da pungolo, diventa specchio per le proprie pigrizie e va spezzato. Napoli è un’adorabile città, fa struggere di nostalgia, ma è spietata con chi, napoletano, cerca di servirla con un lavoro serio. Scatta un inconscio meccanismo di gelosia: e si placa soltanto quando l’ “intraprendente”, deluso e amareggiato, si arrende e rientra nei ranghi degli scettici, Ma se Napoli morirà non morirà sola: trascinerà con sé tutto il Paese; servono interventi d’alta chirurgia, non impacchi con semi di lino."