Re Carlo ha abdicato? Analisi e dubbi sull’avventura del “piccolo principe”
La carriera di Davide Ancelotti come calciatore non è stata né lunga né tantomeno memorabile soprattutto se paragonata ai successi paterni; ha cominciato e finito tutto vestendo la maglia del Milan – prima le giovanili e poi l’under diciannove – per seguire subito papà Carlo nelle sue avventure in giro per l’Europa: preparatore fitness al Paris Saint Germain e poi al Real Madrid, vice allenatore al Bayern Monaco e poi lo stesso ruolo da secondo, ad oggi ancora ricoperto, sulla panchina del Napoli.
Quando il padre è arrivato alla corte di De Laurentiis avendo dalla sua palmares, esperienza e nome altisonante non aveva destato poi tanto scalpore la presenza di Davide con lui in panchina. Con il secondo posto dello scorso anno, la “ditta Ancelotti father and son” non aveva dato adito a troppi pensieri riguardo la gestione della squadra. Purtroppo con gli ultimi avvenimenti che riguardano il Napoli e che quasi paiono rendere irrespirabile l’aria a Castel Volturno, nel gioco che potremo denominare “trova il colpevole della crisi azzurra” il primo sul banco degli imputati è proprio Carlo Ancelotti e a tenergli compagnia inevitabilmente, sotto la pioggia battente di critiche, è il figlio, reo di aver seguito forse troppo prematuramente le orme paterne.
C’è chi dice che Davide Ancelotti sia un raccomandato, facilitato per nepotismo nella strada per diventare allenatore difficilissima per molti da perseguire.
C’è anche chi dice però che a Davide vada dato il tempo di dimostrare il suo valore – cosa solitamente quasi impossibile in ogni campo per tutti i “figli d’arte” – nonostante il peso ingombrante di essere nato da un uomo che è stato un grandissimo calciatore e che come allenatore ha vinto praticamente tutto.
Se all’inizio la presenza del giovane appena trentenne accanto al padre vincente ed esperto era guardata quasi con tenerezza da giornalisti e addetti ai lavori, questa s’è trasformata con il passare del tempo in palpabile diffidenza: come può un ragazzo di soli trent’anni mettere bocca su questioni tecniche, decidere di sistemi tattici, insomma come può uno come Carlo Ancelotti affidarsi così tanto – quasi ciecamente – a suo figlio?
Dopo il primo anno, con la qualificazione Champions in tasca e secondi dietro soltanto all’inarrestabile Juventus, in questo scorcio di stagione fatto più d’ombre che di luci dell’ “Ancelotti bis” sembra sempre più evidente quanto Re Carlo stia quasi idealmente abdicando le più annose questioni al figlio: è Davide ad incitare, è sempre lui ad urlare più forte, è lui il primo ad alzarsi dalla panchina sia in allenamento che sul campo, ed è ancora Davide ad apparire più preoccupato del papà oggi che le cose per la squadra non vanno poi così bene.
Lo si è visto all’Olimpico dopo il suo esordio ufficiale in panchina, Ancelotti senior non c’era per la squalifica rimediata contro l’Atalanta, c’era invece un Davide orgoglioso per se stesso sì ma anche visibilmente preoccupato di non commettere passi falsi, specie davanti alla stampa, forse troppo concentrato nel non dire la cosa sbagliata in un momento dove una sola ipotetica domanda come: “perché non gioca Tizio piuttosto che Sempronio?” avrebbe causato il caos.
Caos che è poi esploso in tutta la sua potenza: con l’ammutinamento dei giocatori post Salisburgo, il silenzio stampa indetto dal presidente, il malcontento dei tifosi e il campionato in cui tutto il Napoli fatica ad ingranare; ed è inevitabile per la piazza guardare con sospetto in direzione del padre e di quel figlio, sempre così pacati e misteriosamente calmi in un periodo di tale portata emotiva.
Un allenatore dovrebbe e potrebbe dire di certo la sua, esprimere disappunto verso la sua squadra oppure appoggiarla e invece Carlo Ancelotti ha deciso per il silenzio – ben prima del mutismo stabilito dai vertici societari – e anche Davide, come ovvio che fosse, tiene da un bel po’ di tempo la bocca cucita.
Inevitabile è chiedersi – tralasciando le colpe o le ragioni di quella pesante immagine paterna con cui il ragazzo deve fare i conti da tutta la vita – non quanto è giusto che Davide Ancelotti sia il vice allenatore del Napoli ma quanto è positivo che con la veemenza dettata dalla gioventù – a cui fa seguito un’inesperienza di fondo – abbia il ruolo cardine che pare avere sulla panchina azzurra. Quanto è giusto che un ragazzo appena trentenne, sì svelto e che ha masticato calcio sin da bambino, ma ancora così giovane, debba dettare i tempi di gioco e gestire umanamente e tecnicamente un gruppo importante e che facendo una media ha quasi la sua stessa età?
È plausibile arrivare a ipotizzare – e visto il silenzio tombale caduto dopo il Salisburgo in tutto l’ambiente azzurro non si possono che operare speculazioni – che ai calciatori quello a non andare a genio sia Davide, mente reale che c’è dietro a tutti gli “esperimenti” visti in campo nell’ultimo anno e mezzo?
Nel grande gioco che si attua in ogni momento di crisi o pseudo tale è facile individuare nell’allenatore il colpevole e in questo caso e in questo Napoli, la più grande mancanza dell’allenatore pare essere quella di far totale affidamento sul suo vice: Davide arriva sempre qualche secondo prima del padre, nella rabbia e nell’esultanza, in allenamento così come in campo.
Forse la sola e unica verità è che come cantava De Gregori “il ragazzo si farà” ma che ad oggi, in questo momento e per questo Napoli, non si è pronti per il governo di quello che magari in futuro sarà anche un buon principe. Oggi c’è bisogno che il re riesca a rimettersi ben saldamente sulla testa la corona o che con un coupe de théâtre arrivi qualcuno dall’alto a rovesciare questa monarchia.