ADESSO NON DIAMO LA COLPA AL CALCIO

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Come si fa a morire per una partita? Questa frase, pronunciata dal poliziotto rimasto ferito nella guerriglia del Massimino, è la più semplice ma la più efficace, tra tante esternazioni di circostanza che abbiamo ascoltato ieri. Già, perchè è proprio questo che deve aprire un'amara riflessione, dopo quanto accaduto: è per un incontro di calcio che ieri un uomo ha perso la possibilità di viversi sua moglie e i suoi figli per il resto dei suoi giorni. E'una ferita che si riapre non appena ce n'è occasione, una piaga veramente difficile, quasi impossibile, da risanare.

Il copione è sempre lo stesso. Basta un derby, una rivalità minuscola, e chi ha bisogno di sfogarsi per le ingiustizie che subisce nella vita quotidiana ne approfitta per varcare il labilissimo limite che c'è fra sfottò e rissa, dando il via ad una spirale di odio che porta a conseguenze nefaste. Ed ecco un altro dei paradossi di questo strano mondo, un sentimento come l'odio dovrebbe essere completamente estraneo ad un gioco, e sottolineo gioco, ci può stare la competizione e l'antagonismo, ma arrivare ad odiare l'avversario contraddice il concetto stesso di sport. Chi ama il pallone è contento per la sconfitta di una squadra avversaria o antipatica, ma non può certo desiderare la morte di un'altra persona soltanto perchè sostiene altri colori. Questo non è calcio: è attacco alle istituzioni sistematico e premeditato. L'irruzione di simili soggetti nei palcoscenici che ospitano lo spettacolo più popolare è motivato da un desiderio di visibilità e dalla necessità di fare sempre più rumore. Le bombe e i petardi servono anche a far detonare la paura nelle coscienze dell'uomo comune, e quando i poliziotti, uomini comuni e padri di famiglia, non ne potranno più e lasceranno il freno, inizierà una vera e propria guerra civile che farà vittime anche fra i carnefici, ma a pagare come sempre sarà la popolazione civile e non animale. Urgono misure restrittive, che prevengano prima di curare, poichè è bene tenere lontano dagli stadi chi usa il calcio per raggiungere i propri subdoli obiettivi. E non sarà certo la fine anticipata della stagione calcistica a risolvere un problema che, ripetiamo, ha una valenza più politica e sociale che meramente sportiva. Il gioco più bello del mondo, contaminato dalla violenza di questi tempi, è come il più bel lago del mondo inquinato da rifiuti industriali: prosciugarlo non servirà a niente, servirà solo a toglierlo a chi invece merita davvero di ammirarlo. E'la bonifica la soluzione più auspicabile.

Fuori da ogni retorica, fermo restando il cordoglio infinito nei confronti di una famiglia italiana distrutta da una tragedia grave quanto gratuita, e fermo restando il trasporto emotivo che impedisce alle coscienze di tutti di giocare subito dopo un simile fatto (sacrosanto quindi sospendere tutti gli incontri domenica), far finire i campionati sarebbe un grosso errore, e sicuramente non la soluzione al problema. A perdere sarebbe il calcio, sarebbero i tifosi veri, non certo chi vuole dare botte allo stadio come in strada come a casa propria. Stoppare il giocattolo non libererebbe il sistema da questo tumore maligno da cui appare sempre più difficile guarire. Prendiamo esempio dagli inglesi, il pensiero va subito a loro, è rassicurante il contrasto positivo fra le rivoluzioni degli hooligans ad ogni trasferta, che culminarono con la tragedia dell'Heysel, e le feste di sport dei giorni nostri in cui il pubblico è praticamente in campo a sostenere i propri beniamini fianco a fianco, nella vittoria e nella sconfitta ma sempre e comunque in allegria e compostezza. Seguano quel modello le istituzioni, perchè l'aver toccato ancora una volta il fondo deve essere un motivo per rifondare tutto dalle basi, partendo dagli stadi fino ad arrivare alla mentalità e alla cultura sportiva degli addetti ai lavori.

Ma torniamo agli scontri di Catania, adesso è facile prevedere cosa accadrà. Alcuni, pochi per fortuna, in virtù di un'insofferenza alle forze dell'ordine fomentata spesso da interpretazioni strumentali di vicende simili, punteranno il dito contro la Polizia, pronta sempre ad aggredire e caricare alla minima intemperanza. I benpensanti invece condanneranno i tifosi, insistendo sulla ribellione alle istituzioni che spesso caratterizza il concetto di Ultrà, del tifoso della curva che si reca allo stadio per sostenere la sua squadra sfidando qualsiasi situazione avversa, per attaccamento ai colori. E' la strada più semplice da seguire, quella di criminalizzare una categoria che mai è stata troppo simpatica a chi in pantofole guarda la partita dalla tv o a chi in giacca e cravatta la guarda dalla tribuna vip. Ma generalizzare in queste situazioni è il più comune dei trabocchetti, se ci si pensa meglio si può evincere che se in una curva di 30mila persone tutti fossero lì per picchiare e per distruggere, sarebbe la rivoluzione. No, non è così che va: ci sono i violenti, e ci sono dappertutto. Ci sono allo stadio fra i tifosi, ci sono nelle manifestazioni tra i manifestanti, e, non dimentichiamolo, ci sono anche tra i poliziotti. Ma in ogni categoria il violento, l'hooligan (passatemi l'estensione di questo termine al di là delle mura calcistiche), non ha nulla a che vedere con il resto della gente, quella normale, che per fortuna è ancora la maggioranza. Fa male pensare che nel risalto che hanno queste vicende le opinioni successive siano sempre estremizzanti e solidali con l'una o con l'altra frangia, perchè in questo modo si finisce sempre con l'identificare entrambe con la guerriglia e con la violenza. E' così che vincono ed è così che continuano a vincere.

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